Tullio Gardini

 

 "AGOSTO"  - Le Mani Editore, Genova 2011

 

   da "Experimenta" 1984 - 1986Tullio Gardini - Libro di Poesie

 

 III 


Così non so l'arte
di quanto posto in osservazione
convergimento in situazioni stratificate
di pensieri attendibili nel tempo.

E miro in riflesso chi si lacera
per sostenere sofferti
apogei idrofobi
perchè a più dimensioni
è un uguale fuoco di lenti

è l'angolo in cui tu mi nascondi
che non ha luce.

 

 

 

  da "Illo Tempore" 1986 - 2000

 

 I 


E’ posta a scadenza
la somma d’infinita coscienza
che sfugge: privato del grido
terminale soccombo
ai gemiti dimenticando
che l’ultimo istante m'assale,
e cauto ne macero l'odore
sulla viva carne
quando non resta
che farne bisbiglio
per altri
che ho già salutato.

 

 

II


Ci consuma limpida
l’orma del vuoto
e flagellano sul volto
le frustate del vento,
in sordina sento crescere
sul rigo accordi stonati
derisi da antichi melismi
pervasi da risme di note
che non saprò mai cantare.

All’ascolto,
a sognare mi fermo
flessuose sibille
perchè sereno raggiunga
capriccio
d’elevare confini alle forme
degli immutabili cieli.
 

 

 

 IV

 


All’alba schivo pietraie
incespicando. Risalgo
fra mezzo al caruggio
infestato, chiamato
dallo scorrere del giorno
per strade soleggiate.

Mie passeggiate di saltimbanco
rischiarate a sera.

Così s’impolvera l’accesso
alla mente; indifeso
lo sguardo accarezza il peso
dei contorni
invano s’acquieta l’arsura
a salire tortuose contrade
invano violando
viottoli sfatti.
 

 

 XI

 


Frammenti di pensieri
scivolano, si rincorrono
nel perenne movimento
delle onde
fra scogli e gabbiani in fuga.

Poi s’indurisce l’estate,
sui sentieri percorsi
vizziscono gialli i gelsomini,
dal mare riluce d’argento
in penombra
la chiglia del beccaccino
e lo schizzo di luna
sorride d'amore
al giovane pioppo,
ancora si rinnova ogni istante
sul ciglio del nido
l’implume equilibrio della gazza.

 

 

 XIV

 


Quando rivolgo verso sera
il pensiero sulle pietre inciampate
scorgo spogli giacigli
abbandonati fra pieghe
lacerate del tempo
alberi che flettono al peso del freddo
e per le mani
avanza un grammo di silenzio.
Timore di me stesso
è la fronte che goccia di sudore
perchè le strade vanno all'impazzata
le voci a tramontana.

Abbandona - allora - il correre a salire
crêuze fatiscenti,
questa che giunge ritardata al ciglio
dell'abbaino
è brezza di sera novembrina,
troppo fiorito
s'è schiantato l'albero di mimosa
e schizza di bolina
tra rossi cachi la vela in mare:
l'incolto spicchio di cortile
odora d'ardesia sfatta, coi limoni vizzi.

 


 

XVI

 

Sorridere è un isolato 
percorso, ripetuto a sera
quando in penombra i grilli 
stridono canzoni
(quelle stonate nel giardino pendente
della rosa casa di Clary - ricordi?)
e si avvicina mite
l'affanno ad inseguire
fruscio di passeri, a ventaglio
sopra la Torre dei Saraceni.

Ma ciò che tu gridi alle maschere
sorde per rumore di metallo
scalfisce di ripiego
quel niente che attorno a me
vortice si forma,
ed io ti sento
se appena nuoto a pelo d'acqua
se coloro il riflesso del prato
o m'arresto a raccogliere incunabuli.

Si finisce a contare schegge di vetro,
farfalle raccolte,
dal selvaggio riflesso
perle abbinate, e corallo
nel gioco di compra-vendita,
per timore di flettere l'arco che regge
la precaria sponda dell'orologio
come sonda in abissi
a inchiodare il tempo avuto.

 

 

XVIII



Invischia di forzato tramestìo
la tramontana che sibila
fra gòmene coi paranchi
tesi allo sforzo ultimo
e la sbrecciata vela filacciosa.

Infido richiamo. Punge
il vento la nuca
e i capelli scompiglia
alla radice che ghiaccia.

Improvviso si piega tagliente
lo sguardo voltato
perchè ogni cosa s'arrovescia
e non combacia allo specchio
la parola oramai pronunciata,
flebile riscontro
udire la memoria
richiamata svanire.

E come potremmo smemorare
l'urto del vento
se ancora per capire ci chiniamo
ov'è posato il piede
dove ci coglie astratta
la parvenza dell'ombra inseguita. 

 

 

 

XXIX 


Quasi ogni sera
stridìo di grilli
m’accompagna
ora che tra gli angoli
obliqui i limoni
di scorcio alla casa
sono la sola presenza
e l’odore d’ortensie

ove anch’io osservo
zirlare il merlo.
 

 

 

XXXI


Io sono lo stame.
Ho scavato nel pozzo
l'umidore che stempera l'arsura,
il pozzo è una fessura
che discende in fragore
e penetra la terra:
sono lo stame che tu coltivi
in serra.

 

 

 

  da "Agosto" 2010

 

II 


Indicami le contrade incolte
ove adagiare
il pensiero per tutto il tempo
che oso navigare nel tuo regno,
indicami a schivare le spine
il segno
 
            e il dolce castigo
barattare con l’oro.

E' sovrano tormento
ogni singola ora che
in un lampo brucia
e consuma ogni tuo gesto

            e poi cosa inventare
suggerisci al mio fastidioso silenzio

perché ancora cammini altrove
e non scorgi pallido tremore
quando fingi
incomprensione alle cose.

 

 

VII



Per lo smarrito saltimbanco
afferrato al tuo gesto
le movenze formano il domani

                 asciuga il velo
d'acqua - anche se lieve - 
ch'ogni poco scorre
e riluce agli occhi:

non sa dove posarsi
se stacchi la luce.

 

 

IX


Hai destato sopite corolle
e spighe nutrite in squarci
di luce d'alba

                        pure onde
riflesse al crescere del mattino
quando vicino il merlo stride
e il giardino della vita
è steso campo d'anemoni
e lo sboccio inizia cantato
dal festoso richiamo.

                        Ora
il germoglio brucia, la rugiada
è lente di luce
sul lago degli occhi annegano
l'ore della fatica

                        e quest'oggi per strada
sul cammino che forse te conduce
incontro il sorriso dei giovani.
 

 

XI 


Voce che respiri soffi
di pulita chiarezza
gioiosa sospiri e chiami
a smuovere impervie
strade ricurve,
traccia un passo
al soffoco del fiato

                  il giramondo
è fatto aspro
fra le carezze e il nulla.

 

 

XV 


Non so perché se è tramontana
che aggredisce il lembo colorato
della gonna ondeggiante
o il riflesso della luce settembrina
che inclina frammezzo l’ombre dei capelli

                   tu m’appari assediata
come faro dal gabbiano
che posa di frequente stanche ali
ma poi subito vola e si smarrisce
ebbro di luce, al vento.

                   E quando chiami
s’apparecchia una bussola
scolpita a condurti per cieli
all’orizzonte
e caparbia sorregge le sponde
tracciate dal crescente silenzio,
formate da quel poco che ogni giorno
è posato a lambire il tuo domani. 

 
 

 

XX

 

 
Cinque grappoli per te salvati
lucenti d'uva dolce
neri graspi maturati al sole
del terrazzo, abbandonati al tepore
delle foglie, non consumati
perchè stupita ti giungessero
in regalo

                    la notte la maligna
tormenta ha frustato tegole
violentati sacelli
dispersi nidi e bignonie
e gli acini
anche quelli frantumati
ha sparigliati sul cotto impassibile.


 

 

 

XXII

 

Anche il gabbiano a folate
odora l'aria frulla del mattino
assapora il volo rubato
al rotolare del tempo,
schiamazzerà giunto a sera
- per chi? - 
spaesate cantilene contorte
e ritornelli incolori.

                       E il peso sulle ali
s'unisce al forte progredire di bolina
e quando vicina rammenta
che la fatica è salita allo zenit
invano trattiene salate gocce
e amare, trasudate fra penne
quando il volo si fa bieco
liquame di sentina.

                        Irrompe
un urlo ghiaccio a comprimere
nebbia e risacca
che s'ode dalla spiaggia

                        sbanda
e frantuma la rena asciugata
colpita dal mulinello dell'ozio
intanto che svapora
ai bordi della scogliera.