Tullio Gardini

 

 "MUSICO"  - Le Mani Editore, Genova 2013

 

Tullio Gardini - Musico  da "Il volo sulle Hogan"

 


Quale colore ha il nulla
quando s’adagia sulle mani protese
se perduto il rotolo delle pergamene
- scintillante tesoro
che racchiude cascate di parole non credute -
mi trovo fradicio sull’argine
di un Lete qualsiasi
fermo fra cardi spinosi,
e lo scompiglio di un’onda
cancella sull’orizzonte il navigare
che l’alchimia di un sogno
ancora prima dell’incontro ha indicato

anche i fiori sono lacerati sui prati
i fiori che non sanno d'essere appassiti.

 

 

XVI 


Fosti di quercia foglia
vibrata sul leggìo del vento
lì passeggero, su te raccolto
è immobile soffio continuamente
disperso dal suo vagare cieco.

Quercia di un’estate trascorsa
impiantata sul labirinto dell’ignoto,
ha partorito fragile foglia
sensibile giaciglio a zefiro
nutrita e vaga sulla cantilena eterna
che mantiene infinito il sogno

tutt’ora non prosciugato
è il suo colore su cui invoco frescura
d’essere vivo.
 

 
 

XVIII 


E’ un gabbiano e scivola la luce
traversando gli angoli dei palazzi
immobili confini, canta con stridore
il suo vivere quando scontra folate
di tramontana e carta sollevata alla rinfusa.

Lo seguo violentando anch’io ali consumate
al volo, fedele panegirico
plasmato a modellarne il flusso sul ricordo
divenuto fantasma al terminare dell’estate,
frenetico sbattere d’ali
sul feroce ricercare di un cibo introvabile.

E così sulla piazza
è un tuono la sua presenza, il grido
frantumato per il continuo volo
è scintilla spenta, il grido che è lanciato
e non sa dove:
l’abisso del suo cielo non gli inventa risposta
da consegnare al continuo infaticabile
bordeggiare.
 

  


XXIII 


Il fulmine dalla pioggia richiamato
perché scacciasse il vento
sulla cuspide del luminoso faro
è esploso
sbriciolando tane e a disfatti
tuguri dando fuoco.

Ora vaghiamo
fatti di pietra e vestiti dell’odore
di paura se ci incombe ignota lo spruzzo
dell’onda, e il gatto malinconico
nemmeno starnutisce. E sappiamo
che d’inverno l’oscurato crepuscolo
incupisce i giardini, e la fiaba riprende
a recitare attorno alle colline
anche se attoniti alberi
non osano muovere ciglio
e i nidi sfasciati alla terra
s’impastano abbandonati dagli implumi. 

 

 

XXXVI 


Non più quieto il passo del pellegrino
quando solcati anfratti si fa profumo
e miele e medicina del gioco
vissuto, non scioglie sudore che inutilmente
morde il brancolare cieco
dell'irraggiungibile traguardo

così resto immobile
e seminata fra mani e pioggia
l’attesa del tuo vivere
vivo anch’io

vivo del morto
tempo che dalla radice come nodo
di resina il tuo sguardo
tramuta in scultura esangue.
  

 

 

XLI 


Se avanti d’interrompere il viaggio
ti guardo cercandoti fra cespugli di menta
pescheti fioriti
contro le balze del giardino inventato
o rogge seccate dall’arsura dell’agosto
anch’esso concluso, fermata l’altalena
sulla quale non t’è piaciuto salire
rispondi e non mi dire né un verbo
ma neppure un taciuto sorriso
fossi un fiore marcito o sperduto
spruzzo di mandorlo mai raccolto

perché è il Silenzio che voglio
tu svanita.

 

 

XLII

 

Quando racchiudo le tue mani
mi guardi ma non accompagni
l'afferrata onda che si scioglie
sulle dita, il mio respiro fatica a rinnovarsi
sul fuggire degli occhi che hai voltati
già dal mattino. E' così che giochi
e non lo dici, ti sommergi nel vivere
sorreggendo il cane e un microfono
sulle labbra

                  ed io allora
ti racconto che è pioggia
la pioggia sui capelli franata tutti i giorni
sporcata dall'inferno di non poterti abbracciare
se immobile sul crepuscolo sei svicolata.

 

 

 

XLV 

30 novembre 2012, notte 

E' caduta la nebbia ieri sera
posata impenetrabile l'aspettavamo,
avvolge il pelo bianco, immalinconito
lui solleva lo sforzo ma le zampe fredde
non più sono morse dall'agguato,
il sole è tramontato, le tartarughe arrancano
sul volto del mistero e tutti i grilli
tacciono

tu tremi e non lacrimi
risposte, altro non sai – ora - e non vuoi
aprire al vento
non vuoi sentirlo lenire le pieghe
degli urli, che non ti sfiori
o laceri un sorriso

ed io frantumato
non so più disegnare il tuo viso:
l'ho intero dentro il pugno per deporlo
in giardino che sia vivo allo smembrarsi
del mio ceppo bruciato.
 

 


da "Musico"  (*)
 

 LA DEA 

Entra polvere di ferro e non mordere
polpacci, qui è stesa una moquette di silenzio
perché tutti s’oda la preghiera scesa
dal fiume delle stelle, è in ascolto sempre
nell’angolo verde la più limpida goccia
sbalzata fra il truogolo
e il germogliare del rhyncospemum:
la porta della casa mai fu chiusa
e l’urlo del tuo soffio di dolore
è diesis di chitarra pizzicata fra le mie pareti.

Siamo cresciuti insieme
in tempi separati, congiunti dal comando
di un supremo nostro raccoglierci gli sguardi,
muta per non voler dire io, ad altri silenzi,
il mio silenzio nascosto per vent’anni - e tu
raccolto grumo di sporco hai temuto
lo sbandamento che t’insegna la pioggia
se cancella l’impronta dell’inseguita lucertola.

Entra, rimani e raccogli la chimica
pozione per le tue ferite e il pelo vomita
sulle tese mani per te riscattate, domani
dischiusi gli occhi potranno avere odore
umido di pianto.

E forse poi sapremo -
dimenticato il fischio del cuculo
e sopportato il tormento nelle vene - disegnare
un giardino di anemoni e la terrazza dividere
senza barriere fra tartarughe e compagni
di pena, cespugli di gardenie regalate
buganvillee fiorite e le indurite bende
dal siero macerate, spaginate dallo spazzino
schifiltoso che non canta al mattino e non raccoglie
per non lordarsi il viso.

Ospite luminoso
con me sarai il tempo dell'alloro
se a caccia alla farfalla risparmi il volo,
ed io ti infioro giorni rassegnati al fastidio
di consumare questo male d’inferno e se ti guardo
è fiamma di cera che scorgo tra vibrisse
e artigli placati, come il sorridere
al vento della mongolfiera.

Eccoti generato imperatore dell’estate
scaltro padrone della tua ombra
trascinata dolente, con l'ossa della spalla
dalla impervia collina risparmiata,
ladro del tempo per altri organizzato,
leggero di giudizio
soppesato fra un morso
e l’artiglio agganciato
alla mia pelle d’ametista,
la bava dell’odio
è sciolta dall’aroma d’amore
a te donato finché cullato ti fosse
qualunque gioco purché non fuggissi,
Musico
di carezze prodigo
pelo macchiato di goduto silenzio
abbracciato al rito che hai imparato
nuovo ad amare.

 

(*) Musico: gatto raccolto lungo la strada, in anni lontani e condizioni misere, dalla Dea d'ametista; curato senza tante alchimie ma con preciso solido amore: da allora padrone di se stesso. 

 

 

da "Del darsi il Silenzio"



 I
 

Ramificato come gli alberi
dai rami frusti sostegno di gazze
il Silenzio è capace urlare schegge
del niente vissuto, somiglia a rosa dei venti
raccosta sbuffi
la sua parola orfana ghermisce
improvvisa, esplode e non dà tempo
alla paura.

Silenzio nato dall'orgoglio d’amare
all’alba un gelsomino o la foglia
ninfea spalancata sull’acqua
che nulla raccoglie, non polvere
sollevata dal vento e dalla luce sminuzzata
perché distratta.

 

 

IX 


Da quando seppellita la bussola
per gli inciampi sull’impazzito ago
nelle notti d’insonnia velenosa
le cavità dei crateri pensosi
sostengono sorrisi e ragni
dispiegando opaco un percorso al Silenzio
e si avvicinano i rintocchi delle falene
sgualcite sul rigido tombolo
gonfie e dure d'immobilità lucente

se mi guardi s’infiora
ancora l’ultimo squarcio del giardino
ove in vecchie rime coltiverò frammenti
di forsythia e gigli e diverranno le tue mani,
di marmo trasparenti
le tue mani vissute
per calcolare i secoli dei residui canti,
svanito l’impasto di tiorbe e letame
sulla musica del niente e il gioco dei dadi,
e infine poi smorzato il lume.

 



 

 


 

Dalla presentazione del Prof. STEFANO VERDINO 

Arenzano, 5 aprile 2014 

 

 

 

 

Quale colore ha il nulla

quando s’adagia sulle mani protese

se perduto il rotolo delle pergamene

- scintillante tesoro

che racchiude cascate di parole non credute -

mi trovo fradicio sull’argine

di un Lete qualsiasi

fermo fra cardi spinosi,

e lo scompiglio di un’onda

cancella sull’orizzonte il navigare

che l’alchimia di un sogno

ancora prima dell’incontro ha indicato

 

anche i fiori sono lacerati sui prati

i fiori che non sanno d'essere appassiti.

 
 

Avete sentito – letta molto bene da Lazzaro Calcagno – questa poesia che è la prima della sezione “Il volo sulle Hogan”, una delle tre sezioni di questo libro che s’intitola “MUSICO”. “Musico”, che è la sezione centrale, fa riferimento a un gatto, dallo stesso nome, come ci avverte una molto sobria aletta di copertina; è un libro molto ‘all’antica’ dove ci sono soltanto le poesie e non ci sono apparati di nessunissimo tipo.

 

Musico: gatto raccolto lungo la strada, in anni lontani e condizioni misere, dalla Dea d’ametista; curato senza tante alchimie ma con preciso e solido amore: da allora padrone di se stesso.

 

Questo gatto, reale ma anche evidentemente simbolico, un gatto che ha avuto un destino nel suo nome, Musico, che è legato anche a una terza parte dell’attività di Tullio Gardini, quindi non soltanto l’attività lavorativa e la poesia ma anche la musica, che è certamente una parte essenziale della sua vita e della sua passione; gatto che compare appunto in condizioni misere – come si dice nell’aletta –, curato senza tante alchimie.

Le alchimie le abbiamo trovate proprio anche in questa prima poesia: l’alchimia di un sogno che ci indicava una prospettiva, un navigare; e invece queste alchimie non sono molto soddisfacenti nelle varie forme di illusioni, ma quello che conta – e che è contato per questo gatto - è il preciso, solido amore con cui questa provvisoria Dea d’ametista l’ha curato. E l’esito quale è stato? Essere padrone di se stesso, come in qualche modo è l’augurio di ognuno di noi ed è appunto l’augurio di un poeta a se stesso, di essere veramente padrone del proprio verso e della propria strategia espressiva. Certamente la sezione “Musico”, che è la sezione centrale, è quella che si articola con poche poesie, ma che sono quelle che hanno un titolo e una dimensione di articolazione narrativa, mentre chiude poi una terza sezione, di nuovo senza titolo, “Del darsi il Silenzio”: invece del darsi la buonasera e darsi il buongiorno, del darsi il silenzio.

Quindi, è un libro che ha queste tre articolazioni e la prima poesia che apre il libro è quella che abbiamo letto e possiamo un po’ ripercorrere. È una poesia che ci precipita in una situazione da un lato di disagio, ma nello stesso tempo di grande arco espressivo, perché quello che subito possiamo notare è che è una poesia di struttura fortemente sintattica: “Quale colore ha il nulla / quando s’ adagia sulle mani protese / se perduto il rotolo delle pergamene – e ora qua c’è un inciso – scintillante tesoro / che racchiude cascate di parole non credute - / mi trovo fradicio sull’argine / di un Lete qualsiasi”. La struttura è appunto sintattica, decisamente e certamente legata a una matrice montaliana. Montale è stato sicuramente il ‘poeta del cuore’ di Gardini che, come vedete dalla sua chioma, non è un esordiente, ed è un poeta che ha assorbito come propria la lezione dei grandi poeti del ‘900 italiano e in particolare del ‘900 ligure. La sensibilità montaliana di Gardini si può benissimo iscrivere a una tribùmontaliana – e non è certo una situazione ovviamente di demerito – che ha un’articolazione molto vasta, da Sereni a tantissimi altri poeti. Come diceva Montale, non si può non attraversare D’Annunzio, chiaramente tutti i poeti del secondo e del tardo ‘900 non hanno potuto non attraversare Montale. Per quello che riguarda nello specifico l’attraversamento che Gardini fa di Montale, è certamente quello di prendere questo tipo di struttura sintattica molto elaborato, che crea questi archi espressivi molto lunghi con una lunga articolazione melodica e che hanno degli improvvisi sconvolgimenti: perché qui noi abbiamo questo arco “quale colore” dove c’è una temporale e un’ipotetica e un inciso, dove improvvisamente poi troviamo il soggetto “mi trovo”: “mi trovo fradicio sull’argine / di un Lete qualsiasi / fermo tra cardi spinosi”. C’è stato, prima della poesia, un gesto, queste mani protese, questa dimensione di una ricerca di soccorso e di un’intesa, mentre si sono perdute le pergamene dove c’erano delle identità e dei valori, ma nello stesso tempo questo scintillante tesoro che era nelle pergamene racchiude “cascate di parole non credute”. C’è un qualcosa, in qualche modo, in quello che è l’eredità che noi abbiamo acquisito, i nostri episodi personali, che non possono essere più, in qualche modo, praticati, e allora l’identità del singolo si trova in una situazione di desolazione: questo Lete è un “Lete qualsiasi”, e quindi un fiume dell’oblio che però non ha una dignità particolare; e poi c’è un altro elemento che interviene, “lo scompiglio di un’onda”.

L’onda, certamente lo ritroverete, è un elemento importante del paesaggio di questo libro, che è un paesaggio tutto articolato su una dimensione molto ligure che “cancella sull’orizzonte il navigare”. Il tema del viaggio e della prospettiva della navigazione è chiaramente una figura emblematica di quello che è un percorso dell’esistenza e il sogno che è il risultato di un’alchimia viene cancellato, e alla fine la poesia si chiude con uno stacco “anche i fiori sono lacerati sui prati / i fiori che non sanno d'essere appassiti”.

Una poesia, quindi, che costruisce e si costruisce in un metodo sottrattivo: quanto più la poesia ha un arco espressivo e quindi costruisce delle strutture di linguaggio e di espressione di stile, tanto più il contenuto è di carattere sottrattivo: non c’è questo, non c’è quest’altro, e in qualche modo un’altra eredità montaliana che si ritrova in altri testi è quella di riuscire a fare molta poesia con gli avverbi di negazione, che è un’altra struttura, un altro sortilegio tipicamente montaliano. Questo è l’inizio di questo libro che ci porta in una situazione di una poesia che non è consolazione, che indica un atteggiamento di ricerca e da interrogazione esistenziale, con dei forti margini di dimensione preoccupata in questa ipotesi di naufragio che si pone qui all’apertura.

Tutta la prima parte è, infatti, una continua lotta con la dimensione dell’esistenza, che è un procedere ma è anche un essere cancellato dal tempo, dall’onda, da un “impossibile tempo / che feroce avanza”, come si dice nella seconda poesia, “ogni rintocco / sta cancellando un corpo / dal mio corpo spento”. Una bellissima immagine, questa, della cancellazione della memoria, in cui noi abbiamo un doppio spegnimento: il proprio corpo materiale che si sta spegnendo e il tempo che ci sta cancellando corpi e memorie all’interno di noi. E infatti, anche la seconda poesia si chiude con questa drammatica domanda: “cosa rimane al centro del vano sforzo / a mantenere l’inutile fragore dell’orgoglio / a sera, / quando sepolto chiudo gli occhi ? – quest’immagine del chiudere gli occhi, del dormire come un morire è ovviamente di antica cultura (c’è anche un’immagine di Sbarbaro di notte “chiudo gli occhi come in una bara”), ma questa dimensione – “quando sepolto chiudo gli occhi” - è certamente, all’interno di una tradizione, una felice invenzione espressiva.

In tutta questa prima parte abbiamo una continua lotta con questa articolazione drammatica nei confronti del tempo e di una serie di figure di paesaggio. In questo senso, una poesia certamente cruciale è, per esempio, quella dedicata ad un gabbiano, della sezione XVIII; magari potrei chiedere a Lazzaro di leggerla molto meglio di come posso leggerla io:

 

E’ un gabbiano e scivola la luce

traversando gli angoli dei palazzi

immobili confini, canta con stridore

il suo vivere quando scontra folate

di tramontana e carta sollevata alla rinfusa.

 

Lo seguo violentando anch’io ali consumate

al volo, fedele panegirico

plasmato a modellarne il flusso sul ricordo

divenuto fantasma al terminare dell’estate,

frenetico sbattere d’ali

sul feroce ricercare di un cibo introvabile.

 
E così sulla piazza

è un tuono la sua presenza, il grido

frantumato per il continuo volo

è scintilla spenta, il grido che è lanciato

e non sa dove:

l’abisso del suo cielo non gli inventa risposta

da consegnare al continuo infaticabile

bordeggiare.
 

Gabbiani in poesia è un appuntamento canonico; ricordo sempre che Pierantonio Zannoni cominciava sempre i suoi servizi in Rai con delle immagini di gabbiani. Il rischio è, con rondini e gabbiani, di fare sempre del ‘poetese’, cioè degli ammicchi facili a una dimensione di bellezza, anche se i gabbiani sono poi antipaticissimi, ma comunque nell’iconografia qualche gabbiano appare e i poeti li hanno sempre molto nobilitati al di là decisamente dei loro meriti. Quindi, il rischio, quando si maneggiano gabbiani, rondini e volatili vari, è quello di fare del ‘poetese’. Invece, qui il gabbiano viene decisamente impiegato nella sua realtà (un gabbiano che vola) e fortemente caricato di significati in quello che si definisce un correlativo oggettivo in cui il gabbiano è realmente il gabbiano che vola e che grida in un suo percorso, ma che viene caricato nella seconda strofa dal poeta, che si immedesima con lui: “Lo seguo violentando anch’io ali consumate / al volo”; anch’io mi sono consumato nel volo dell’immaginazione, nelle varie alchimie del sogno che abbiamo visto; ma quel gabbiano, e torno alla prima immagine nella quale c’è quell’ardimento sintattico del gabbiano che “scivola nella luce / traversando gli angoli dei palazzi” e “canta con stridore / il suo vivere quando scontra folate / di tramontana e carta sollevata alla rinfusa”. E qua vediamo da un lato l’immagine della tramontana con folate, un’immagine che appartiene certamente alla dimensione alta della poesia, mescolare con la carta alla rinfusa, che è un po’ del mondo-spazzatura in cui tutti siamo immersi, crea questa sintesi di una nuova immagine, nello stesso tempo antica e contemporanea: questo gabbiano che in un volo con gli angoli dei palazzi traversa la tramontana ma anche questo turbinio di cartacce, di vario materiale in cui noi siamo dentro, sollevato alla rinfusa, è una felice immagine moderna, dove noi siamo legati a questo suo canto con stridore. Il poeta lo segue cercando, nel suo volo, di “modellarne il flusso su un ricordo” (un tema centrale di questo libro), ricordo che è diventato un “fantasma al terminare dell’estate”, con un suo “frenetico sbatter d’ali sul feroce ricercare di un cibo introvabile”, dove gli alimenti non ci sono. Ma la sintesi finale della terza strofa fa crescere in modo ossessivo, come fosse il grido di Munch, quello di quel gabbiano: “e così sulla piazza / è un tuono la sua presenza, il grido / frantumato per il continuo volo” diventato “scintilla spenta, il grido che è lanciato / e non sa dove”. Questo grido, questo stridore del gabbiano che, da quello che è il suo naturale rumore animale, rimane come un grido di allarme che ha una tradizione iconografica, più che poetica, molto forte. “L’abisso del suo cielo non gli inventa risposta / da consegnare”, non c’è una risposta a questo grido, non vi sono elementi né di conforto, né identificazione precisa, “al continuo infaticabile / bordeggiare”.

La poesia ci introduce un altro elemento, il bordeggiare infaticabile, l’andare bordeggiando è quello che poi è il destino normale, incostante, nel quale tutti siamo, in cui noi non riusciamo ad avere una risposta piena ai nostri ideali, alle nostre scommesse. Continuiamo a subire lo scacco della temporalità della nostra corporeità e siamo tutti rassegnati a un bordeggiare, che è quello che è costante.

Come poi si dice più avanti, “Vivere è quello che mi resta / da fare, vivere dimenticato fra galassie / e fasci d’erba / trascorsa la notte, adagiato / sulla confusione che il giorno va raccogliendo. // Non mi resta che vivere / non altro”, non ci sono altre dimensioni, il vivere normalmente bordeggiando, “né maggiore sfortuna / posso invocare per la piccola / frantumata avventura / che il pensiero mi assegna”. Sempre il frantumare, lo spezzare, il continuo protendere degli archi, dei voli nell’immagine degli archi della sintassi che poi si frantumano, “E non ti lascio / per il dopo se non felice la mente / colma di te scrigno di luce, o splendido / tramonto”.

Questa è una poesia d’amore rivolta a un tramonto. Il tema del paesaggio, come abbiamo detto, è un elemento importante di questo poeta; ormai, il paesaggio è un motivo anche di generazione. I poeti più recenti hanno pochissima sensibilità al paesaggio, perché i messaggi e i segni del paesaggio sono confusi da vari elementi. Gardini riprende il tramonto: anche qui, quanti elementi potrebbero portare al ‘poetese’ (gabbiani, tramonti), invece gli elementi sono innovativamente ripresi, come in quel gabbiano in cui si mescola il proprio bordeggiare, o in questa poesia in cui la propria eredità, il proprio portafortuna non viene dato a una persona ma viene lasciato a questo splendido tramonto che saluta. Lo stesso si ritrova nella XLIII poesia, in cui si dice:

 

Quando cesserai di farmi scrivere

versi di te colorati?

anche se appaiono informi

sérrali incolpevoli nel lucernaio

o almeno da loro lasciati baciare

             e non voltare

il viso verso la collina

ove raccolti ancora vivi qualche dozzina

di petali
ho seminati  fra muschio

e l’ossatura della pietra.

 

Il ‘tu’ è un elemento importante di questa poesia che di nuovo ci porta a degli antichi modelli. Il ‘tu’ è il bisogno della comunicazione franca in quelli che sono i tanti elementi di frattura che ci possono essere nella realtà. Qui, di nuovo, il ‘tu’ è quello che porta un’ispirazione, perché a questo ‘tu’ si dice: “Quando cesserai di farmi scrivere / versi di te colorati?”. A questo ‘tu’ ci si rivolge dicendo che ci sono ancora dozzine di petali seminati tra il muschio e l’ossatura della pietra. Abbiamo un micro paesaggio un po’ sbarbariano: muschio, pietre e petali; e dei pochi petali che sono ancora vivi, una dozzina di petali che ci possono essere, dei minimi segni che sono – come delle bottiglie lanciate nel mare perché qualcuno le possa leggere – segni di piccola positività.

Rispetto a questa prima sezione, la sezione legata a “Musico” nella seconda parte è quella dove abbiamo un’altra dimensione: non una dimensione accesamente e travolgentemente lirica come struttura, ma un andamento più narrativo in questi testi. Per esempio, nella prima poesia “L’incontro”, quella dedicata specificamente a Musico, dopo una prima strofa dove è alla prova il ‘non montaliano’: “Non sibilare accordi raccolti / in fatiscenti scantinati […] non sputare steso sulla rena / al vento grigia schiuma / e il calcinaccio del vicolo non corrompere / sulla disegnata pozzanghera di fiele…”, dove poi c’è una significativamente fragile sorella, che è la Dea d’ametista, che ha “schermito / il bruciare dell’unghia sul braccio”, e alla fine questo gatto “Hai conquistato in piovoso pomeriggio / - mischiato alla tempesta roteante / all’apice dello sguardo di cristallo - / il primo gruzzolo di medicina e cibo” - ricordate che nelle altre poesie c’era l’impossibilità di riuscire a cibarsi di qualche cosa - “posto / all’angolo buio sotto la credenza / perché non ricordassi l’impeto a fuggire / dopo il morso, / scommessa vittoriosa sull’ombra di pazienza / intorno cresciuta a liquidare fame e fuga”. “Insieme, in questo primo alimento”, questo gatto che, non più spaventato o terrorizzato, riesce ad alimentarsi di qualcosa, “… s’è sciolto peregrinare  / d’odio e ferita  del muso, il sangue / ha assorbito analgesico e luce / e amore di un dito teso…”. La dimensione dell’amore, della ‘pietas’, della fraternità, se le ambizioni di emozioni molto forti non riescono ad articolarsi più di tanto, c’è però il vivere ‘al cinque per cento’, il vivere in una dimensione di estrema semplicità, come il soccorso a questo gatto che finalmente può nutrirsi di qualche cosa, a dare dei momenti di positività.

 

Così come nell’ultima parte, “Del darsi il Silenzio”, il silenzio è visto come un elemento importante perché capace

 

Ramificato come gli alberi

dai rami frusti sostegno di gazze

il Silenzio è capace urlare schegge

del niente vissuto, somiglia a rosa dei venti

raccosta sbuffi

la sua parola orfana ghermisce

improvvisa, esplode e non dà tempo

alla paura.
 

Silenzio nato dall'orgoglio d’amare

all’alba un gelsomino o la foglia

ninfea spalancata sull’acqua

che nulla raccoglie, non polvere

sollevata dal vento e dalla luce sminuzzata

perché distratta.
 

Il silenzio è quindi un qualcosa che può anche avere una dimensione positiva; c’è una serie di piccoli segni di cui noi dobbiamo porci in ascolto. L’esperienza del silenzio è quella che più riesce a far sì che noi possiamo ascoltare le varie forme dell’alterità e del paesaggio, che è in qualche modo l’invito che questo libro ci propone.
Grazie.
 

(testo orale non rivisto dal Prof. Verdino)