Tullio Gardini

 

 "FILLIDE & GECO"  - Le Mani Editore, Genova 2011

 

Tullio Gardini - Fillide e Geco   da "Claudette" 2010-2011
 

 

            II


Claudette canta
e le foglie d’autunno danzando
le s'adagiano festanti in grembo
d’ocra dipinte

                 canta le finte paure
che non vuole bruciare, nel bosco
sono rare le note fiorite
raccolte al piede del tralcio
là dove l'innesto ha maturata la vite.

Claudette è un impero
racchiuso nel sole
forgia splendore di papaveri
estasiati di luce
la sua voce è un diesis
che regge il cristallo del tempo

                 ma nessuno sa
quale scempio è costruito
tra gli occhi e il suo cuore
nessuno che non si pieghi
a coltivarne il dolore.




 
  V


Non perché t'indovino all'angolo
in piazza
comparire improvvisa
s'arresta il fiato
e la fatica è proseguire
sbandato beccaccino alla deriva,

                                   il sogno
che hai stampato fra l’orizzonte
e il viso è entrato un pomeriggio
sottile come filo di luce in penombra,
non ha bussato

                                   è penetrato
tra gorghi della carne
sul collo, nelle spalle, sulle mani
indifese,
nell’encefalo esangue,
senza fatica s'è fatto largo nell'infinita
volontà di contenerti.
Ora scardina il flusso degli astri
col pensiero,
ne infrange le chimere
apparse a dipingere teoremi d’argento,
brucia in tavolozze severe
le melodie raccolte
e comprime il tempo che già sento
fluire alla foce

                                  ma non dà voce
né attenzione al ritornello
che invoca le remote ultime
preghiere, stanco
del nulla che attorno infiora
senza germoglio.




 
 

X



Schiudi le gemme
d'aucaliptus ove solitaria coltivi
notti per non reggere
buriane a raffica,
e quando osservi flesse palme
e il cozzare di pigne
fra sbattuti giacinti
o ancora odi da tramontana
le coturnici sferzate
sanguinare per l’infide folate 

                      alla mattina - all’ora
bianca di una rara mattina -
se diserri d’estate il balcone
il refolo dal mare su te propaga
t’accompagna sul ruscellare della luce,
solleva tende s’inchina al profumo
del sole filtrato dagli aghi
vola e ti lambisce il seno
a smuovere
il desiderio finalmente di carpirti
un sorriso,

                       con sé Borea trascina
stregato dagli occhi in fiore
per consegnarti nell’ore più calde
al fresco risoffiare del vespro.






 
 

XIX



Non comando delle dita
gesto
o diniego della mano
può cancellare
quanto nel tempo in noi
è cresciuto,
nessun rito
non rimorso di tempie
non artificio d’usignoli
può semplicemente mutare
il riflesso del sogno
o scalfire il corso
dell’astro che c’insegue
e sorregge la mente:

                       nulla di quanto
risolviamo si ripete e così
spesso ci dimentichiamo
che il tempo un certo dì
s’arresta
e il gioco quando finisce
non sappiamo.





 

  XX



Ti raccoglie il vento e scolora
l’arsura quando all’alba
di tutti i giorni
bussa al tuo seno
perchè fiorisca d'amore
e per te rasenta fronde
dipinte di primavera

                     ti raccoglie
e insieme avvolge nel trionfo
degl’occhi esplosi a seminare lampi
folgore
stormi di luce,

                     gli occhi
come tu sola sai far sorridere,
tu con loro

                     soli
tu e loro
profeti nel disegnare il racconto
d’argento che matura
dalle fresche parole
che sai conservare sbalzate sino al tenue
smorzarsi della sera.




 
  XXII


E dunque se gli alberi
s’inarcano sbiechi e gli ulivi
guardandosi spaccano il tronco
crescendo, io osservo se appare
compiuta la favola
che ho recitato, o sorrido
se la vita
mi regala in autunno l’arresto
di questo mio viaggio scomposto
e divino

                      ma tu dove sei
ora
quando credo d’averti
scolpita ma è solo fuggita
l’ombra radiosa
e fra le mani sciolte dall’oro
ti chiedo una strada
l’indirizzo
un portone socchiuso
che so che non trovo,

                       tu dove sei?
col tuo superbo grazie
l’immenso grazie che deborda ovunque
e penetra nei cardini
di un tempo ch’è ormai lontano
fra ossa e cuore,
e lì si ferma.




 
 

XXVII


Ancora osservo incredulo
l’arrampicarmi al filo più chiaro
dell’arcobaleno passeggiando
sul respiro del vento e il rifrangersi
che s’imprime
specchio dei tuoi occhi, il profumo
del seno – acre magnolia –
bianco e teso:
immobili architrave
a percorrere sorridente preghiera
fiorita mescolata al desiderio
che in silenzio offro
al tuo invisibile giardino.

                    E’ quando m’accarezza
lo sguardo di Claudette che in me,
compiuto il gioco che la luce
assegna appare nuova
la tombola dell’illuminata giostra,
mi so capace vecchio come sono
coltivare su dorate spalle
qualche riflesso del trascorso tempo.

                    E la sera
se l’eco spersa giunge perchè termina
anche il più vischioso viaggio,
la sera smorza alla stazione
l’incrocio che ci osserva
tremolante, il fanale
sul percorso schiavo di fatica,
l'usura dello scambio
e la pietra in pensilina per poggiare
smarrito l'avanzo del bagaglio,

                     mi salva
piegare in tasca
il foglio ove tu sei in rima.




 

  XXIX


Se è fatica udire e ne intendi
il fragore ciò che recito
perché sul petalo in bilico
di un fiore è sommerso dal chiasso
della strada, o perché mischiato a sirene
sorde che in riva all’onda
si lasciano infrangere non cresciute
dal guscio di bambina,

                 n’esce smarrito
lo sguardo che regge e sospinge
il baldacchino ove ti ho composta.

                 All’alba chiara
è maturato l’astro che di te
riluce e fecondo induce l’incedere
al viandante scartato
fattosi saltimbanco
raggiungere sull’orma dei tuoi occhi
lo spicchio grande dell’arcobaleno.





 
  XXX


“… non mi dà niente
di più… e in più sottrae qualcosa…”
interroghi e mi osservi, non capriccio
ma dubbio malinconico
smarrito nel labirinto ove sono ucciso
ancora forse ogni mattina

                       per quella ferrea
chiave che disegno e tempero al fuoco
silenzioso che si fa tempesta
da quando mi sei nata
nelle vene, ancora incerta
fucina di pazienza
al mio giocare a reggere
quale tormento?

                       perché non sai
se ferma al vento non ascolti
respirare le fronde maturate
che ti ricamo attorno al viso

                       non sai
a non volermi camminare assieme
capire che il vino va assaggiato
per mischiare il bruciare
della carne.





 
  XXXIV



Risplendi
più del raggio
di un sole disteso sul covone
giallo di luce
tu che sei per me benedetta
Claudette
come la terra
che sollevi nel cammino
e impasti, o l'aria
che smuovi se sorridi

benedetta da un dio
che chiusi gli occhi
mi ha capito.




 



 

               

FILLIDE & GECO

 

  GECO
(I, 1-4)

 
    Perché te’n fuggi, o Fillide?
Ohimè, deh, Filli ascoltami
e quei belli occhi voltami:
Geco io son, se ben son magro e pallido




 
  FILLIDE
(II, 5-15)

 
    Non per la rima
m’ha carpita Claudio, la musica
bambina m'ha nutrita

                 - raccolta sul gioco
delle gronde equilibrio per gatti
o solfeggi seminati
per sbiadire rosse le gocce
scivolate in croce dal ciuco
inchiodato al giogo di una giostra –

respiro e cibo e sangue
per ogni mio mattino.




 
  GECO
(III, 16-24)

 
    Temprata al fuoco in oro
e bronzo, da Éfesto è la collana
concepita per cingermi a questa razza,
della vita forgio l'adatta stirpe
capace d'amicizia
che discende per traccia dal seme dei Titani
e perdura anche se nebbia
oscura le colline
e frantuma il sole.




 
  FILLIDE
(IV, 25-43)

 
                       Adolescente sudavo
la fatica di conversare con Sitone
così vicini eppure mai incontrati,
segnati da cespugli
sconfinanti fra terrazzamenti
e pietre,
il gioco della corsa sulle fasce
dei campi dietro casa a schivare crepacci
crochi
bisce e frasi frantumate
dalla mia rabbia dal tuo non capire,
il sogno vivo d’ogni mattino
colpiva gli occhi
scandiva il precetto che torce
le ossa a passeggiarci insieme: 

                     perché conviene
sia spento il mio faro di Tracia
per sciogliersi il sangue nelle vene
ed abbracciarlo?




 
  GECO
(V, 44-56)

 
    Se ci arrestiamo ad ascoltare
girandole, se affoga fra coriandoli
il tempo o ruotiamo in girotondo
perché viviamo fermi?
o forse s’incammina il mondo
e conduce a spiarci
fra battaglie muti, cullati
dal contrastato vento, perduti
a non rientrare per cena
frenati dal respiro roco
sfiniti dagli ultimi minuti
di siglati accordi o periziate
tessere di un domino stranito.




 
  FILLIDE
(VI, 57-70)

 
    Quante scalée
edificate tardi a consolare
severo il padre ormai silente,
fazzoletti stretti dentro al pugno
non offrono mercede e questa sera
nessuno avrà capito niente
, smarriti
tra foreste che in riva all’acqua
placano onde attizzando il fuoco
della mente
mia arcüata verga ostinata di rabdomante,
vorrò sbalzare zolle di pentagramma
squillare furiosi proverbi
seppur diversi
alle diverse genti.




 
  GECO
(VII, 71-95)

 
    Sono cresciuti la notte steli d'erba
fra arcobaleni del solitario cosmo
e le falene appese alla trave
sul lucernaio hai coltivate
nell’incavo delle mani
pronte a lenire l’esplodente
fragore del domani.
I prati germogliano
e raccolgono il giovane passo
che l’imprime, s’aprono giardini
sul tuo seno che fiorisce
all’età
che lo spruzzo salino confonde
i ginocchi, e fermo il fiato s’arresta
sino alla prossima sorgente luna
quando scorgi Acamante
passeggiare di fronte
al confine che rompe l'onda,
e la tempesta che sbalza tra le rose
non ti dà segni di quiete:
il fragore della spiaggia sabbiosa
che da sempre ha nutriti i tuoi vent’anni
suggerisce l’addio
quando ti inchini a salutare la conchiglia
sonora che t’ha cresciuta.




 
  FILLIDE
(VIII, 96-121)
   

                    Ho nuotato
ogni giorno socchiusa nel fresco mattino,
chiesto passaggi alla vita,
cantato il vespro
la sera, e all'alba congiunta a merli
e usignoli svolare sorretta da zefiro
m’ha sollevata sulle gravide nubi
viandante col sole
sul fado per condurmi a danzare. 

                    Ho incise sulla rupe
note flautate per amici
e parole per ridere insieme
donando ad ogni più fragile
specie - priva di consenso -
l’eco trionfante
ghermita fra le braccia a non svanire,
e la notte
e le stelle adagiate sul tetto
e il chiarore vermiglio che il mattino
frustava la brina sciolta:

                     che splendore d’arpeggio
la volta che ho cantato
alle onde agli scogli
alle siepi in giardino
il solo bello
è ciò che non esiste.




 
  GECO
(IX, 122-156)

 
    Ed io?
io quale emblemata sono?
quale stamberga custodisce
i mille frammenti
fra le mie pareti di silenzio ospitati
e l’appiglio del cielo, e la sconfitta patita
che il soffitto di creta
spenta l’arsura del giorno
trema al fischiare d’ogni ritornello
ossidato dal tempo.
Quante le veglie in cui non coltivando
felice l'orto al sonno ho svenduto
la quiete della mente.
Per me larva caduca
non voltarti indietro
– ora –
che rugiada intenerisce la strada:
ora è il momento che il tuo viaggio
sia compiuto in groppa al toro bianco
dal saldo corno,
e lì afférrati
all’apogeo del volo,
il fiato dalle froge ti sollevi
oltre lo schiumare del salino
languendo i veli che ombreggiano
fianchi e ginepri,
fasciata dal vestito
bandiera per le ninfe náiadi
mischiate alle sorgenti
e alla schiera dei giochi.
Ed io ora son Zeus, Geco invertebrato
tralcio di vite
torso di cielo
comandato dal dio dell’infinita forza
a lato del tuo fianco.




 
  FILLIDE
(X, 157-194)

 
                       No, non viaggio
a ritroso e l'innesto di fronde
d’altri preparato
s'è consumato per il clima
dagli immobili orizzonti
e sarò rinata più feroce ancora
nell’ora del crepuscolo se osservi
la sbandata uscita del riccio, lì mi vedrai
camminare, immobili le mani ove
ho scritto qualcosa
(ora Filli sorride, anche il tempo riposa), 

                     sentirò passeggiando
fra boschi il carillon
che cadenza il respiro,
troverò fra mappe di pentagramma
fragili foglie che l'acribìa del canto
ha impresso sulle nuvole intorno,
e intorno a me ruscelli
consumeranno il pianto. 

                      Non viaggio
sull’orma dei secoli che il sasso
ha mantenuto perché
fucina mostrasse lo scolorire
del tempo,
sono trent’anni che cammino
nel mio mondo nirvanico
e l’arco del cielo alla caduta d’agosto
delle stelle ha confuso il mio crescere
all’arte con l’infinito dizionario
che non fa domande.

                       Quante le sere
che t’ho cercato mendicando
passaggi alla vita
per raggiungere te
, e caricato il basto
ho pregato gli dèi sul cammino
sorreggere la meta o fermarmi
se sconfitta
prima.




 
  GECO
(XI, 195-219)

 
    E’ tutto un groviglio di gente
smarrita alla giostra della cuccagna
fra quinte di carta
sulla piazza
sulla violentata scienza
dell’effimero festival
fra luci e il riflesso del niente
che danza nei capelli
quando incolpevoli si voltano chiamati
non sapendo da chi.
Ma tu,
tu percorri il tuo sentiero fiorito
cresciuto ogni stagione per il tempo
voluto dai tuoi occhi di cenere
e l’aroma della voce squillante
refrattaria a rifrangersi
sopra il mito dell’anima
non lasciare sfuggire:
fra nuvole si scioglie invidiato
ogni profumo d’amore,
l’amore forse giace
sulla riva del mare
fra scalpiccii di zoccoli taurini
per conquistare il giro delle perle
che racchiudi nel volto.




 
  FILLIDE
(XII, 220-261)

 
    Ora non ho più voglia di giocare
non voglio l'architetto
l'armatore
il cantore stempiato
che parla di finanza,
ho pagato in silenzio lenzuola
ed eterni momenti di pianto,
ho rimborsato tutto e per intero
le ore segnate sul registro
seppur confuse
sparigliate dallo scrivano
che imbroglia all’ingresso
e non mi restituisce
quelle in avanzo. 

                             A stare sola
ho già imparato
che al luna park
la giostra è raccolta di spazzatura
e non so poi se tu esisti davvero
o sei verniciato col fondo di minio
del barile raschiato dal capomastro.
E quando in attesa per trovare
quale sia la strada
maligna la pioggia infradiciata la gonna
ne ha sciolte le pieghe,
lo schianto per l’orma di un disegno
più grande
ha bruciato sulla panchina
del parco vecchie canzoni
giornali
foulards strappati
dal giocare coi cani
e insicure passioni trascorse
oramai consumate. 

                            Voglio mettermi ferma
ad aspettare,
sillabare in soffio
ancora la parola ti amo,
voglio osservare vecchi
con bastoni piegati di fatica passare
incamminati sul desiderio della cena,
condurli sulla scena degli affetti
guidarli per la mano
là dove scorrazzando Eunoè
distratto li raccoglie.




 
  GECO
(XIII, 262-295)

 
    Se sfogli intero il libro
dove hai scritto per lustri
- non curando l’indice -
preghiere e consigli, filastrocche
e parole sulle ali trasmesse,
le lacrime e gli odori del mattino,
il timore di consumare lo scorno
dell’abbandono, il conato insistente
della notte dalle immobili
ore spente, l’affanno del costato
rattrappito per l’agnello sgozzato,
Fillide
la fuga arresta, ferma la ruota
che frantuma il mozzo,
non sognare in eterno
poterne reggere lo scorcio
frantumato del peso
o gridare a dèi distratti
d’attraversare il prato priva
di cielo,
raccogli lo smalto
per incidere l’ossa del fianco
stritolata da smorfie e bei sorrisi.
Non mischiare l’umana fortuna
al furore del cosmo,
non è questo
a cui tu vuoi giocare
e la donna
non più fanciulla
ora allinea coscienze
confeziona pagine con l’indice
i numeri
il titolo e l’esergo
fors’anche una dedica in corsivo.




 
  FILLIDE
(XIV, 296-317)

 
    Mi sento una roccia in mezzo
a un fiume
e so da tempo
nel flettere i ginocchi
per mischiare cibo di cani attenta
produrre canti
che penetrano rimescolando
sangue. E sul carro del sole
che il dio del Tempo m’ha confezionato
ho per faro il latrato di muti amici,
a loro m’accompagno ogni giorno
e il giro delle nubi che ne guarisce gli occhi
è il mio sorriso.

                               Alle stelle
ho inchiodato i più forti pensieri
fissate immagini che il ghiaccio
ascoltato trasmette
a chi confonde il futuro
col tempo che è trascorso

                               e imparo l’abbandono
all’amore che permette vedere
gli altri
come il dio li vede.




 
  GECO
(XV, 318-339)

 
    Componi tra fessure di vento
canzoni e libri
sciogli incunaboli árgini
alla follia del mondo
e accorda ritornelli,
incidi quando ti piace portolani
se t’illumina sorreggere
mura alla sfiancata Superba
ove regni modellando per tutti
sestanti. Conserva il sorriso
costruito da lacrime
e gocce di mercurio:
già t’abbraccia la luce che s’infuoca
nel viso, ti cullerà l'invertebrato
amico, e gelsi e orchidee
rododendri e aspidistra
al tuo apparire flettano lo stelo
al sogno che l'amore
del mattino fatto ardore
passeggia nelle vene,
follia del grande tenero torneo
al fermo terminare della vita.





 
  FILLIDE
(XVI, 340-355)

 
                         Stanca di consumare
il livore di Crono
che dalle mani m’ha divorato
dieci anni e il mio casto silenzio
domani il seme in me sia deposto
quasi grembo di Gaia
perché marcito sui fantasmi lasciati
dai trascorsi Acamante, rinato
Atena dolcemente
ne incammini la crescita
e il cespuglio adorni
con paglia e protegga,
di letame mi circondi le gote
di ginestre fasci i capelli
e il muschio allora sgorghi profumato
d’elfi e conchiglie.




 
  GECO
(XVII, 356-370)

 
    Infinita con forza hai temprata
al disegno d’amore ogni specie
che in te si nutre e della tua fattezza,
in viaggi consumati fra il giardino
e il cielo hai riscattato muta
l’umano dovere
e l’urlo che all’anima si fonde,
sciolto l'orgoglio del vivere
e consegnato al sole il candore
del tuo sorriso
hai bruciata la polvere del mondo
il suo tempo
fuso il batacchio
delle campane intorno,
ora è il piacere.




 
  FILLIDE
(XVIII, 371-397)

 
                            Modellati i confini
violato il labirinto e sciolti i muri
stinti dalle Moire ubriache
il disegno si sgrani imposto
dal fiero dio
comparso primo all’alba della vita
il mio tempo è segnato da stelle
in pergamena
ora sei Zeus, Geco invertebrato, 

                        ora t’accoglie
Fillide, all’orizzonte
apparso con sapiente pazienza
lievitata sul cammino
di Delfi, dal sonno strappata la ruota
e sciolti i quattro raggi,
ad ogni istante hai inseminate
dolci radici, sparse sementi
di ferrigno logo, e sulla crespa
superficie colorata del prato
esploso è il fiore nel tempio dell'inverno
ed è fiorito bianco
privo d’orpelli
senza foglie i rami
nudi di scorie 

                        un trionfo di candidi
petali splendenti
ho generato.




 
   
     


 



Nota

Delle versioni del mito di Fillide, di gran lunga la più affascinante è la più remota (epoca omerica): innamorata di Acamante (in molti testi, soprattutto latini, Demofoonte), per l'involontario ritardo di costui nel ritornare dalla conclusa guerra di Troia, Fillide si lascia morire dalla disperazione: non riesce a contenere il grande sentimento che prova verso l’amato, il dolore dell’amore perduto è così forte che le spegne la vita. Atena, mossa da compassione per la vicenda, trasformò Fillide in albero, un mandorlo, che, come sappiamo, fiorisce, unico e solo, nel cuore dell’inverno, prima i fiori e poi le foglie.
Successive versioni greche (Callimaco) e latine (Ovidio, Heroides e Virgilio, Bucoliche) fanno di Fillide, in particolar modo in Ovidio, una principessa altezzosa, innamorata più dell’amore che dell'amato, una donna esasperata dall’abbandono che scrive una lettera invettiva a Demofoonte, accusandolo di tradimento, e alla fine si uccide. Apollodoro (II sec. d.C.), nella Biblioteca (Epitome, 6, 17) racconta “… scaduto il termine stabilito, Fillide maledì Demoofonte e si uccise”. La versione di Caio Giulio Igino (64 a.C.-17 d.C.) in Fabulae 59, pur amico di Ovidio, si avvicina, spiritualmente, al mito omerico: “Fillide dunque, per desiderio di Demoofonte, morì”.

I, 1-4 – Da “Madrigali guerrieri et amorosi […]. Libro Ottavo di Claudio Monteverde”, è il madrigale 19 dei Canti amorosi. Il quarto verso, naturalmente, non cita Geco, ma recita “Aminta io son, se ben…”.
II, 6 – Claudio, s’intende Claudio Monteverdi.
III, 17 – collana, diadema forgiato da Efesto per Dioniso perché fosse da questi regalato ad Arianna in occasione delle nozze. Efesto poi, per vari motivi, la scagliò in cielo ove formò la costellazione “Corona Boreale”. Efesto confezionò diverse collane; la più frequentemente citata dal mito fu quella forgiata per le nozze di Armonia con Cadmo.
IV, 26 – Sitone, re di Tracia, padre di Fillide. Altri indicano Fillide figlia di Licurgo, re dei Bisalti.
IV, 41 - faro di Tracia, è il padre, Sitone, re di Tracia.
VII, 86 – Acamante, figlio di Teseo, amato da Fillide che per lui si lascia morire.
XVIII, 375 – fiero dio, Eros, considerato, in molte fonti della mitologia, il primo e più antico degli dèi, da cui tutto scaturisce.
XVIII, 384/385– dal sonno strappata la ruota/e sciolti i quattro raggi, riguarda, in origine, il mito della maga Iynx che confezionava droghe d’amore, una delle quali, bevuta da Zeus, lo fece innamorare di Io. Il mito della ruota con i quattro raggi e dell’uccello “torcicollo” è complesso: il lettore curioso provvederà da se medesimo.



Genova, 3-6 novembre 2010

 


 


Dalla presentazione di G.B. ROBERTO FIGARI

del libro "FILLIDE & GECO"

Cenobio dei Dogi - Camogli (GE) - 28 gennaio 2012
 

 

QUELL’ANTICO FUOCO di G. B. Roberto FIGARI

Buonasera!   In assenza dell’assessore alla cultura della nostra città, assolvo innanzitutto il compito - per così dire istituzionale, nella mia qualità di consigliere della Biblioteca Civica “Nicolò Cuneo” di Camogli – di porgere a tutti i presenti il benvenuto a questo primo evento dell’anno 2012 nell’ambito degli “Incontri con l’autore”, che si svolge in collaborazione con la casa editrice Le Mani.
Quella degli “Incontri con l’autore” è un’iniziativa della nostra Biblioteca alla quale – come alcuni fra i presenti ben sanno - tengo molto ed alla quale – quando mi è materialmente possibile – cerco di dare da diversi anni ormai il mio modesto, ma appassionato contributo.
Questa sera incontriamo – attraverso il suo ultimo libro  – un autore di poesia, cui peraltro mi lega un’amicizia viva, benché relativamente recente.
Un’amicizia tale che non mi ha consentito di sottrarmi alla sua richiesta di intervenire questa sera, ancorché io non possa considerarmi – per formazione, ed ancor meno per professione – un critico letterario.
E quanti un po’ mi conoscono sanno che, se proprio mi si vuole appiccicare addosso un’etichetta, l’unica che accetto a cuor leggero è quella di semplice cultore di storia locale.
Non sarà quindi la mia una presentazione in senso tradizionale, né – tanto meno – una lettura esegetica, od una sorta di amichevole laudatio, convinto come sono che l’assoluto della poesia mal sopporti qualsiasi eccesso d’indagine, anche della più benevola.
Ma vorrei ricordare - non fosse altro che per tentare di dare una ragione in più della mia presenza a questo incontro – come ho conosciuto Tullio Gardini.
E’ accaduto neppure un paio d’anni fa, quando – dopo essere stato invitato a far parte del comitato scientifico che preparava la celebrazione del 130° anniversario del congresso degli armatori italiani tenutosi in Camogli – proposi di realizzare per l’occasione una ristampa anastatica degli atti di quell’ importante consesso pubblicati nel 1880 per cura di tale Francesco Gardini.
Accertata infatti l’esistenza di discendenti di quest’ultimo, nonché la loro permanenza nell’ambiente dell’imprenditoria genovese, suggerii alla nostra Civica Amministrazione di tentare almeno un loro coinvolgimento.
Fu così che lavorando per la riscoperta e la rivalutazione di un momento poco noto della nostra storia locale, là dove pensavo di trovare un assicuratore ho incontrato un poeta, cioè un portatore di quell’antico fuoco che – anni fa – ha scottato pure me! 
Tullio Gardini potrebbe definirsi – con una frase ad effetto, una di quelle tanto care a certo giornalismo nostrano - un artista dato in prestito al mondo degli affari.  E’ entrato giovanissimo nell’azienda familiare (più che centenaria) di intermediazioni assicurative, ma si è nel contempo laureato in lettere con lode e diritto di pubblicazione.
Affiancando quindi per lunghi anni il lavoro agli interessi culturali ed artistici,  ha pubblicato alcuni saggi ed alcune raccolte di poesia.  Vorrete perdonare ora al bibliofilo che malamente si nasconde in me un breve excursus bibliografico del nostro: per la saggistica ricordo “Note sugli scienziati liguri in rapporto con Galileo” (1975); “Genova e Parigi: una missione diplomatica” (1981); “Una compagnia di assicuratori a Genova” (1981); per la letteratura “Quello che siamo” (1966);  “Poesie” (1967); “Il tempo di Loto” (1987); “Agosto” (marzo 2011) ed infine “Fillide & Geco” (settembre 2011).
Quest’ultimo è stato appena presentato lunedì scorso a Torino presso la libreria Feltrinelli con un’introduzione di Giorgio Barberi Squarotti e Pier Paolo Civalleri, incontrando un peraltro prevedibile successo.
E’ pertanto ancor più evidente che – dopo un consimile precedente - il mio intervento di oggi non può in alcun modo presumere di concretarsi in una introduzione critica.
Né vorrei limitarmi – da lettore impenitente - a proporvi, quasi in modo didascalico, delle forse troppo personali e certo poco interessanti mie “note in margine ad una lettura di poesia”.
Preferisco semplicemente avviare degli spunti di riflessione, con la massima libertà che mi è data dalla personale confidenza con l’autore, il quale peraltro si è ben guardato - ancorché espressamente richiestone - dal fornirmi qualsivoglia indicazione preferenziale.
Sono convinto - anche dal punto di vista storico - che la poesia (un genere letterario che solitamente affascina chi la frequenta, ma lascia indifferenti tutti gli altri) possa essere considerata - come ad esempio certamente lo fu nel Rinascimento italiano - uno degli strumenti migliori per addestrare l’intelligenza.
E forse per questo affascina spiriti semplici e complessi ad un tempo.
E’ questa una suggestione che sicuramente mi viene dagli studi classici ed è in effetti la comunanza di basi ciò che nell’immediato mi fa sentire vicino al nostro autore.
Ma credo che le cose non stiano poi proprio così e che l’intesa intellettuale tra me e Tullio Gardini non si possa fondare semplicemente sulla comunanza di un certo percorso di studi e / o di letture.
Penso in verità che quando si tratta di poesia non si tratta solo di avere qualcosa da dire, né tantomeno solo di saperlo dire.
Buona parte del gioco sta nel come si dice quel qualcosa.
La poesia non è un quid di estraneo al mondo, ma è incarnata in esso e ciò che noi chiamiamo tradizione classica – al di là delle forme della grammatica e della retorica - è fortunatamente un qualcosa di ancora ben radicato nel mondo mediterraneo a cui, non solo geograficamente, sentiamo di appartenere. 
Essa è trasmessa non solo dalle parole, ma dalla stessa natura, dentro e fuori di noi.
Da sempre la leggerezza del mito accoglie e conforta racconti e confessioni e non di rado ciò che chiamiamo poesia nasce da una felice tensione tra forma e contenuto.
Non a caso Tullio Gardini è anche musicologo, in ciò manifestando la sua istintiva attrazione verso l’armonia.
Eugenio Montale – consentitemi una citazione a memoria - ha riconosciuto che le poesie sono un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo.
Ed è sempre Montale che ha confessato di ritenere che la poesia sia nata dalla necessità di aggiungere un suono vocale (la parola, appunto) al martellamento dei primi ritmi tribali (la musica).
Credo di non dire nulla di nuovo, o comunque di sconvolgente, se ricordo come a ben vedere la poesia scritta si apparenta sì alla musica, ma tende anche a schiudersi in forme architettoniche.
E soprattutto dopo l’invenzione della stampa anche gli spazi vuoti della pagina assumono valore.
Può essere dunque un gradevole esercizio dell’intelletto seguire - nel corso della lettura di questo volumetto - la traccia di tali indicazioni, per incontrare un poeta.
Il libretto si articola in due sezioni. La prima, fisicamente più corposa, che raccoglie trentaquattro poesie d’amore scritte tra il 2010 e il 2011 e dedicate a Claudette, la seconda, fisicamente più esile, ma forse di maggior peso specifico, racchiusa in un breve poemetto “Fillide & Geco”, che dà appunto il titolo alla pubblicazione.
La circostanza odierna impone e consente (per il sollievo di chi Vi parla e soprattutto di Voi che ascoltate…) la presentazione di una sorta di breve antologia, mia personalissima – e quindi discutibilissima - campionatura di brani che ho ritenuto evidenziare per darVi almeno un’idea di quel che scrive il nostro autore.
Ci affidiamo per le letture al nostro amico Mario Peccerini.
(LETTURA: V, pp. 15/16 - "Non perchè t'indovino all'angolo")


Come dicevo piace considerare prima materia della poesia il suono, ma essa si rivolge anche all’occhio.  
Essa dipinge immagini, ma è anche musicale.
A ben vedere essa riunisce due arti in una.
E la musica è talora mezzo ed oggetto al tempo stesso, come in questo brano. 
(LETTURA: VI, pp. 17-19 - "La giostra del quartiere")

Ma non è mia intenzione riproporre qui per intero, a mo’ di chiave interpretativa, certe più che meditate e tante volte discusse riflessioni novecentesche sulla poesia in generale.
Possono però bastare provocatoriamente questi pochi princìpi per avviare un discorso sull’opera di cui oggi ci occupiamo.
Un discorso che ciascuno di noi - nella propria irrepetibile individualità di lettore – potrà sviluppare al meglio e con esiti talora imprevedibili.
Ascoltiamo ora un altro brano.
(LETTURA: XI, p. 23 - "Afferra il silenzio")

L’incontro con l’autore deve avvenire, ne sono più che convinto, inevitabilmente ed indispensabilmente attraverso il suo libro.
Perché è sotto forma di libro che – dal punto di vista pratico – viaggia essenzialmente la poesia, dal momento che la nostra civiltà ha ormai completamente – o quasi – abbandonato il sistema di trasmissione orale dei testi poetici.
Ma direi che val la pena di approfittare della presenza di un così accurato lettore, per godere ancora delle immagini e dei suoni di un altro brano.
(LETTURA: XV, p.27 - "Tersa giornata di silenzio")

Un amico comune – dotato di notevole sensibilità letteraria oltre che di indiscusse capacità di scrittura - ha recentemente osservato che con questa sua ultima raccolta di poesie Tullio Gardini ci conferma il suo sofferto, ma ampiamente raggiunto, approdo lirico ed ha indicato in Leopardi ed in Quasimodo tra i punti di riferimento della sua vocazione e produzione letteraria, sottolineandone la “tanta musicalità”. Al proposito non posso che convenire e suggerire un’altra lettura.
(LETTURA: XX, p.32 - "Ti raccoglie il vento e scolora")

La proposta di prender parte attiva a questo incontro mi aveva inizialmente lasciato un po’ perplesso, perché da anni ormai non mi occupo più diciamo “attivamente” di poesia e mi limito al ruolo – forse un poco passivo – di semplice lettore curioso.
Al di fuori della mia attività professionale, infatti, i miei interventi pubblici, da più di un decennio, vanno limitandosi a quei temi di storia (in particolare di storia locale) che mi sono sempre stati particolarmente cari ed ai quali dedico molto del mio poco tempo libero.
Ma non tenevo conto di qualcosa che evidentemente non era invece sfuggito – almeno istintivamente - a Tullio Gardini prima di chiedermelo, cioè che l’interesse per la storia (specie per la microstoria) ha radici non dissimili dall’amore per la poesia (specie per la lirica). 
E’stato detto che Tullio Gardini riesce ad essere originale, egli stesso protagonista rigoroso, perché la sua arte è vita vissuta e storia.
E ad una pagina di storia vissuta può paragonarsi quest’ultima proposta di lettura.
(LETTURA: XXIII, p.35 - "Vent'anni, quasi il tempo") 

Si conclude così il nostro assaggio della prima parte del libro.
Nel poemetto che dà il titolo alla pubblicazione l’atmosfera si fa indubbiamente più rarefatta. E non è solo la rievocazione di un tema mitologico a favorire l’ermetismo dell’autore.
E’ doveroso intanto offrire a tutti – anche a chi ha da un po’ troppo tempo  concluso propri studi classici – una sintesi del mito di Fillide.
Fillide era una principessa, figlia di un re della Tracia.
Al ritorno da Troia uno dei due figli di Teseo, naufrago in quella regione, fu accolto dal re padre di Fillide, la quale se ne innamorò.
Dopo le nozze il giovane ripartì per Atene, con la promessa di essere presto di ritorno.   Fillide gli consegnò una cassettina che avrebbe dovuto aprire solo quando avesse perduto la speranza di tornare da lei. 
Fillide - dopo una lunga inutile attesa – disperata finì con l’uccidersi e gli dei per pietà la trasformarono in un mandorlo senza foglie. 
Il figlio di Teseo, stabilitosi ed accasatosi altrove, aprì un giorno la cassettina che Fillide gli aveva affidato, dalla quale uscì uno spettro che fece imbizzarrire il suo cavallo, tanto che egli cadde a terra trafiggendosi con la sua stessa spada.
Esistono peraltro – come sempre per quasi tutti i racconti mitologici – diverse varianti di questa narrazione.
Una di queste varianti vuole che il fedifrago figlio di Teseo, tornato troppo tardi in Tracia e venuto a conoscenza della morte e trasformazione della moglie, abbia abbracciato il mandorlo sterile che rinverdì e mise foglie, dette appunto in greco phylla.
In realtà Tullio Gardini, nella - più che erudita - preziosa “Nota” apposta con davvero impeccabile gusto neoclassico in calce al suo poemetto, sottolinea la caratteristica del mandorlo. L’albero che fiorisce, unico e solo, nel cuore dell’inverno, prima i fiori e poi le foglie.
La densità dei quasi quattrocento versi in cui quest’opera s’articola non consente certo di proporne una dettagliata analisi, che potrebbe impegnare il lettore in ben più estese e tediose annotazioni.
Meglio limitarci ad apprezzarne, per esempio, l’esordio, davvero – mi si consenta la battuta - più che musicale!
(LETTURA: I, 1-4 "Perchè te'n fuggi, o Fillide?; II, 5-15, pag.51 - "Non per la rima")

Il volumetto di cui parliamo questa sera porta, con la dedica, un’intrigante epigrafe in greco philìa dià tòn eròta, che forse rappresenta – nella sua brevità – il senso dell’intera pubblicazione: amicizia attraverso l’amore!
L’amicizia di Geco, amico invertebrato, sostiene Fillide con le sue esortazioni; Fillide non cede infine – in questa variante del mito - alla disperazione.
(LETTURA: XIII, 262-295, pagg.59/60 - "Se sfogli intero il libro")

E questo è l’ultimo brano che ho scelto per darVi un’idea del libro: mi è sembrato giusto non dirVi – come si suol dire – come va a finire, per non toglierVi il piacere della riscoperta del confortante linguaggio della poesia.
In tempi di crisi ci domandiamo se, come e quanto potremo ancora andare avanti e questi interrogativi tracimano – per così dire – da un significato meramente economico, per debordare ad un significato esistenziale.
Ce la possiamo fare, finché abbiamo tra noi e li riconosciamo, dei portatori di quell’antico fuoco.   Grazie!

 


 



 

Dalla presentazione di PIER PAOLO CIVALLERI

del libro "FILLIDE & GECO"

Feltrinelli Libri e Musica - Torino, 23 gennaio 2012

 

La vena poetica originaria di Tullio Gardini si è sviluppata sin dall'adolescenza, dall'età di dodici/quattordici anni, e si è concretata in cinque piccoli libri, Quello che siamo del 1968, Il tempo di Loto del 1987, Poesie del 1970, Agosto e Fillide & Geco del 2011. Accanto a queste opere, che rappresentano l'aspetto centrale della sua attività letteraria, e che sono affiancate da molte poesie, ed alcuni racconti, pubblicati in varie riviste letterarie, occorre citare alcune ricerche storiche, oltre a quella originata dalla tesi di laurea, e della quale si è già fatto parola: Genova e Parigi: una missione diplomatica e Una compagnia di assicuratori a Genova. I poeti che egli riconosce come suoi Maestri sono Sbar­baro, Lorca e soprattutto Quasimodo fra i contemporanei, Leopardi fra i classici.

La sua attività poetica e letteraria è stata affiancata per lunghi anni, e in qualche modo limitata, nella quantità, non certo nella qualità, dalla sua attività professionale. Entrò appena laureato nell'a­zienda di famiglia, una agenzia di assicurazioni oggi ultracentenaria, fondata dal bisnonno Enea nella seconda metà del XIX secolo, e tut­tora in piena attività. Sul finire degli anni 80 ne assunse i compiti in prima persona, sostituendo progressivamente il padre in età avanzata, e li mantenne fino al 2005/2006, quando incominciò a cedere parte del lavoro alla figlia, così ricavando il tempo per dedicarsi con maggiore impegno alla sua attività di elezione. Ma anche in quegli anni, l'intenso lavoro condotto con la serietà e la passione ereditata dagli avi potè frenare, ma non arrestare, la sua attività poetica, i suoi interessi culturali, che si estendono dalla letteratura alla musica: in questo campo fondò nel 1988 1' Associazione Musicale "Johann Chris­tian Bach", di cui è tuttora Presidente, con la quale ha svolto in Italia attività concertistica e più recentemente ha dato vita all' Associazione "Elegantia Doctrinae", che consente di svolgere attività musicale "non classica".

Da quanto ho esposto in sintesi, si deve riconoscere che ci troviamo di fronte ad una personalità complessa. Tullio Gardini ha svolto, nei vari momenti della sua vita, e svolge tuttora, due (se non tre) at­tività completamente diverse, con la stessa serietà, anche se con im­pegno temporale di volta in volta diverso. Il dilettantismo, anche di alta qualità, gli è del tutto estraneo. Egli coniuga, in modo non co­mune, la solidità borghese e il fascino inquieto della libera creazione artistica; due aspetti che costituiscono una polarità dialettica, come ci ricordano molti fra i romanzi di Thomas Mann.

Avendovi presentato, in modo necessariamente succinto l'Autore, vorrei ora sviluppare alcune considerazioni sul suo ultimo libro, che oggi viene presentato, considerazioni di un lettore non specialista, ma fortemente tentato dall'allusività di un testo che vuole essere decifrato. Il libro, come sappiamo, si compone di due parti: la prima, intitolata Claudette è una raccolta di poesie che insieme costituiscono uno stu­pendo canto d'amore; la seconda, che ripete il titolo dell' intero libro, è il canto dell' amicizia nella quale l'amore si trasforma e si stabilizza nell' evolvere del tempo. Geco, 1'amico preumano, salva Fillide dalla morte per la disperazione del mancato ritorno dell’amato, ricostruendo in una nuova chiave il mito greco di età omerica; una chiave che apre un orizzonte di speranza. L'amicizia attraverso l'amore recita la de­dica in greco a Claudette.

Colpisce innanzitutto la ricchezza delle immagini e la complessa al­lusività della lingua, che rivelano il tumultuoso crearsi dei pensieri e delle evocazioni che emergono dalle profondità dell'inconscio; espres­sioni talvolta ermetiche, ma che destano improvvise risonanze nella mente del lettore, forse perché accennano, nella lingua del mondo reale, a verità inesprimibili. Silenzi, timidezza, approcci appena ac­cennati, e l'Altra che forse non percepisce. Irrimediabilità della storia di una vita aperta verso la morte. Claudette, come il dono di un dio. L'amore inconfessato e l'amicizia che reca consiglio e conforto. Tutto questo traspare quando la luce si libera dall'oscurità, quando il lettore ha raggiunto la certezza interiore di essere entrato in sintonia con il poeta.

Libri come questo, che portano alla luce le profondità oscure della mente in un linguaggio che, per quanto ricco, è pur sempre mutuato dall'esperienza quotidiana, trovano il loro significato non nel senso let­terale delle espressioni, ma nella loro capacità evocativa, nell'ambigui­tà irrisolta dell' allusione. Forse la chiave di lettura più appropriata è fornita dalla mitologia greca, alla quale l'Autore fa esplicito riferi­mento attraverso una nuova interpretazione, dopo le varie dell' età clas­sica, del mito di Fillide.

La mitologia non è solo una religione che non ha più fedeli o un argomento di studio per i cultori delle civiltà antiche. Essa, come mostrano gli studi di Frazer, di Kerényi, di Eliade, di Jung ed altri nel secolo scorso, è una risposta arcaica globale ai problemi dell' uomo nei suoi rapporti con gli altri, con se stesso e con l'Universo che lo circonda. Essa è insieme religione, cosmologia, sorgente di norme morali e descrizione della realtà dell'uomo. Lo scorrere dei secoli e l’evoluzione delle culture hanno progressivamente taccato dalla cul­tura mitologica il pensiero razionale e infine quella sua forma parti­colare che attiene ai fatti empiricamente verificabili, il pensiero scien­tifico. L'enorme successo di quest'ultimo, non solo per quanto riguarda la conoscenza fondamentale del mondo che ci circonda, ma anche per i mutamenti sociali indotti dagli sviluppi for e non sempre e non da tutti accettabili, ha fatto dimenticare a molti l'importanza del pensiero mitologico, che resta il nocciolo duro, la chiave di accesso al mondo oscuro della mente primitiva che e in noi e che segna il nostro destino. Non per nulla l'amico di Fillide, Geco invertebrato, ha il nome di una famiglia di rettili. Esso rappresenta a livello umano una condizione preumana, dove non esistono il pensiero razionale e la coscienza, ma in qualche modo una sapienza superiore guidata direttamente dal dio, che finisce per identificarlo con il dio stesso.

Il piccolo libro, né in se stesso, né come io l'ho interpretato non è certamente facile, e non si presta ad una lettura distratta ed affret­tata, alla quale il nostro tempo, purtroppo, cerca di avvezzarci. Ma è un libro avvincente, senza una chiave di lettura precostituita (io ne ho proposta una ma ce ne saranno certamente altre migliori), che pro­pone una sfida al lettore. Spero che coloro che lo leggeranno provino lo stesso struggente interesse, lo stesso desiderio di comprendere e di ap­profondire, che ho provato io nell' avvicinarmi ad un mondo in qualche modo misterioso.

[PIER PAOLO CIVALLERI - Professore emerito al Politecnico di Torino - Facoltà di Ingegneria - Classe: Scienze fisiche, matematiche e naturali.]

 

 

 


 

Dalla presentazione di GIORGIO BARBERI SQUAROTTI

del libro "FILLIDE & GECO"

Feltrinelli Libri e Musica - Torino, 23 gennaio 2012
 

Ho avuto proprio recentemente questa occasione di rivedere Tullio Gardini che avevo conosciuto tanti e tanti anni fa proprio per il tramite della poesia, e che poi avevo in qualche modo perduto, e ho saputo adesso delle sue attività che hanno riempito i suoi anni, e quindi lo hanno anche in qualche modo distratto dalla scrittura poetica. E’ stato quindi per me un piacere particolare ritrovare questa memoria e al tempo stesso ritrovare una poesia, quella attuale, sia Fillide & Geco, sia l’altra contemporanea che ho letto e che si intitola Agosto, e ritrovare quella passione e quella eleganza di scrittura poetica che avevo conosciuto sono ormai quarant’anni circa.

Noi sappiamo che al tempo attuale la narrativa dura al massimo tre mesi poi il romanzo sparisce, ne arrivano altri, deve far posto ad altri; la poesia non si trova assolutamente o quasi nelle librerie ma ha il privilegio di poter durare molto di più. Mi aveva dato Tullio Gardini un altro suo libro, “Il tempo di Loto”, mi pare di 30 anni fa, e rileggendolo almeno in parte adesso, per il confronto con l’attuale Fillide, vedo che si è conservato più o meno uguale, con la sua validità, con il suo messaggio che esso offre.

Tullio Gardini ha scritto una raccolta - “Fillide & Geco” - di poesia d’amore. Sappiamo che fin dalle origini abbiamo due riferimenti fondamentali nella nostra cultura: uno è quello classico greco e romano, l’altro è quello ebraico. Ora, non è singolare il fatto che proprio sia nell’una che nell’altra tradizione religiosa e letteraria la vera poesia d’amore abbia una sua presenza immediata, da subito, iniziando da l’Iliade e dal Cantico dei Cantici, e da altre esperienze nei libri della Bibbia.

Ora scrivere poesia d’amore è impresa sempre più difficile perché proprio da quell’inizio, fino a oggi, si sono accumulati migliaia e migliaia non dico di versi, ma di libri che hanno trattato, hanno parlato della poesia d’amore, hanno parlato d’amore, in sostanza. Tanto più difficile oggi, direi, perché si ha l’impressione, non solo da adesso, ma da qualche decennio almeno, che tutto quanto sia stato ormai scritto. Il che naturalmente non è vero perché tutti i temi fondamentali nella letteratura come nelle arti figurative e nella musica sono, fin dalle origini, già fissati, ma quello che accade dopo è la possibilità di una infinità di variazioni: variazioni proprie di quel motivo iniziale delle nostre origini culturali.

Ecco, quello che mi piace particolarmente di questo libro è la prima parte, cioè la parte più specificamente dedicata all’amore: c’è un che di gioco, di ironia dedicata alla passione che anima continuamente il discorso. Non è un discorso di slancio, di entusiasmo, è invece una misura estremamente saggia e prudente di discorso che guarda con felicità e con grazia una esperienza amorosa, ma anche ne avverte la precarietà, il distacco, l’impossibilità di una durata continua e sicura nel tempo. E allora proprio tocca alla poesia di riuscire a conservare, al di là delle occasioni, la verità delle esperienze e del discorso attraverso le immagini poetiche dell’esperienza amorosa.

La seconda parte del libro, come già è stato detto, in fondo si potrebbe dire un componimento pastorale: Fillide è un personaggio più genericamente così nominato nella nostra tradizione letteraria, a quanto mi risulta, fin da cominciare dal Tasso, in particolare proprio Fillide è una delle ninfe che fanno parte dell’insieme dell’opera tassiana dedicata all’amore. E poi Fillide ha una continuità nell’età cinquecentesca, nel tardo cinquecento e nell’età barocca; poi, infine, le Fillidi sono infinitamente numerose nel periodo arcadico, dove qualunque poeta che voglia parlare della propria donna amata, la chiama Fillide.

Quella che è la novità di questa Fillide, invece, è di essere il recupero proprio di un evento, di una situazione storico-mitologica, non solo storica: la citazione nella guerra di Troia ha un suo significato anche in questo discorso. Ora Fillide è invece la prima, la Fillide originale, originaria, quella di una vicenda tragica, poi consolata e confortata di una perdita - dell’uomo amato - e di una disperazione propria per la perdita dell’amore.

E’ un’altra faccia, questo aspetto tragico ma confortato poi; dico, un’altra faccia di quel discorso proprio della poesia d’amore che il libro contiene.

Se c’è questo distacco, questo gioco nella prima parte del libro, c’è nell’altra parte l’ansia, l’angoscia, il timore che ha bisogno però alla fine di trovare una qualche consolazione. Già la tradizione classica ha confortato in qualche modo Fillide, almeno ha cercato di confortarla dalla disperazione che l’avrebbe condotta a morire. Ora la reinvenzione che Tullio Gardini fa è al tempo stesso un compendio di tutta quell’esperienza del discorso poetico nella tradizione classica, ma è anche una lezione che vale a confrontare e a rendere particolarmente significativo e creativo il messaggio di poesia amorosa che tutto il libro nel complesso contiene.

[Sono lette alcune poesie]

Credo che la lettura sia stata molto utile, come d’abitudine, proprio per avvicinarsi più direttamente alla poesia di Gardini. Leggendo credo che ci si renda conto abbastanza bene del ritmo che Gardini dà ai suoi versi con un intervento di rime che mi paiono sempre particolarmente efficaci proprio per rilevare in modo migliore l’esperienza, il momento, l’emozione che il poeta vuole raccontare ed esprimere.

Non è quindi soltanto il solito verso libero privo per lo più di ritmo, invece è proprio molto fortemente ritmato il discorso poetico di Gardini. Mi sembra che questo sia anche proprio vero attraverso quell’accentuazione di certe parole che riescono a offrire al lettore una più forte commozione e accettazione della verità poetica.

Ecco, io avevo già chiesto, parlando con Gardini, il perché di quel geco. Lo richiedo adesso, mi perdonerà se mi ripeto, ma ho un particolare affetto per il geco, quello… vero, quello vivo e vero. Quando andavo al mare, in Liguria, nella casa dove abitavo con i figli allora molto piccoli e la moglie, la sera, arrivando a casa per dormire, sul soffitto c’era sempre un geco, se non due o tre gechi, secondo la stanza; ed era anche molto divertente, accendendo la luce, vedere quella lingua del geco che rapidissimamente afferrava zanzare o altri insetti che gironzolavano intorno alla lampada. Il geco è sempre stato per me un animale che mi è piaciuto e al quale ho sempre voluto bene. E ho chiesto appunto a Gardini come mai quel geco vero che è nella prima parte del libro, dopo diventa un personaggio. Rifaccio la domanda.

[Gardini risponde:]

Geco è un animale che mi ha sempre colpito. Fin da giovane frequentavo Lucia Rodocanachi, ad Arenzano, la quale aveva una vera passione particolare per i gechi - ne aveva la casa invasa - e affermava essere il geco un animale che si è dimenticato di seguire l’evoluzione. Non dovrebbe vedere, in base agli organi della vista che ha, e invece vede benissimo perché va a colpire - come il professore ha raccontato - con precisione gli insetti; non dovrebbe camminare perché ha le zampe con quelle particolari larghezze terminali e invece gira attaccato a tutte le pareti, gira sui soffitti, del tutto tranquillo. E’ un animale che non dovrebbe esistere, per cui lo consideravo infimo nella scala della natura. Mi è venuto in mente il geco, nella sua piccolezza, per paragonarlo a Fillide, nella sua grandezza, ed è diventato Geco. Perché la grandezza di Fillide è assolutamente significativa: aspetta per lungo tempo il ritorno di Acamante, il quale, non per propria volontà, ma per motivi naturali, il vento contrario, la nave insicura, le tempeste, il mare, non torna in tempo da Troia, e lei si lascia morire. Attenzione, non si uccide: come dice Apollodoro, si lascia morire. Si lascia morire per amore, che è un concetto – per questi tempi – di inaudita potenza. A Fillide, quando ho cominciato a concepire e scrivere il poemetto, dovevo paragonare un qualche cosa che fosse allo stadio più basso possibile, per elevare il più possibile la grandezza di lei. Ecco come è nato Geco, che poi lungo il poemetto evolve.

[A domanda di una signora intervenuta: “Le tracce di Quasimodo e Leopardi si possono vedere?”, la risposta di Bàrberi Squarotti]

Bisogna sempre vedere singolarmente il testo per poi poter osservare eventualmente quei punti di riferimento, che ci siano. Citare Leopardi: dopo il 1837 tutti l’hanno letto, in qualche modo ascoltato, ne hanno sentita l’eco. Quasimodo è citabile proprio perché classicista. La poesia è citazione e l’elemento classico è presente in una infinità di altri poeti, remoti, antichi, ma anche del novecento. Gli elementi classici sono presenti in Eliot, in Montale, in Rilke in modo addirittura clamoroso, come in Valéry o in García Lorca.

Il discorso sulla presenza di un autore su un testo, di una allusione, di una citazione di un’eco di altri autori è da vedersi soltanto in un caso singolo, non in un discorso complessivo. La letteratura moderna è carica inevitabilmente di citazioni, di echi, di passato. Ora, proprio uno degli aspetti singolari, originali e significativi della poesia contemporanea, moderna, attuale, è quello di rendersi conto di questo peso infinito - quasi infinito - di presenza poetica precedente e di cercare di affrontare questo passato con l’allusione e al tempo stesso la reinvenzione del testo.

Io quello che non sopporto è piuttosto il tipo di poesia che finge di essere facile, simpatica, amabile, televisiva o quasi. Quando leggo testi che cominciano dicendo ecco un mattino mi sono fatto la barba oppure mi sono pettinata, sono uscito di casa, ho visto c’era gente alla fermata dell’autobus e lì ho visto un ragazzo o una ragazza o un vecchio…

La poesia non deve mai dire quello che sappiamo già, ma ha bisogno di dire qualcosa di nuovo. Ecco, il valore soprattutto di questo libro di Tullio Gardini è quello di averci detto qualcosa di diverso, di nuovo: se non è nuovo, se il discorso non ha una sua specificità, se non dice cose che non sappiamo ancora, allora è inutile e possiamo farne a meno, come facciamo a meno, infatti, di tanta poesia che tuttavia è abbastanza di moda.

 

 




DL NEWS CULTURA

Foglio telematico nazionale a cura di Decio Lucano
12 dicembre 2011

FILLIDE & GECO

Tullio Gardini, assicuratore, storico, poeta, musicologo con questa sua ultima raccolta di poesie ci conferma il suo sofferto ma ampiamente raggiunto approdo lirico. Fillide & Geco è un poemetto (Le Mani editore, € 10) incluso nella raccolta, rivive con la fantasia creativa di Gardini il mito di Fillide (forse il più antico canto di amore e morte), tema che ispira tutto l’impianto poetico dell’autore. Un impegno di responsabilità civile la poesia di Tullio Gardini, la comunicazione classica che non indulge, se non nella composizione a tratti ermetica, in preziosismi formali, in accostamenti voluti di aggettivi e di immagini.
C’è Leopardi, c’è Quasimodo nella sua vocazione e produzione letteraria, e tanta musicalità, ma Gardini riesce ad essere originale, lui stesso protagonista rigoroso, perché la sua arte è vita vissuta e storia.